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GRAN TORINO

Clint Eastwood parla del popolo che aiutò la CIA nel Laos, e che ora vive negli States. La Ford è il simbolo dell’ostinazione verso la giustizia.

Anche se il film prende il nome di un’automobile, non centrano le rincorse mozzafiato o i virtuosismi rallistici. No. In questo caso la Gran Torino che titola il film, nome di un modello Ford del 1972, è un simbolo; anzi vari simboli. Richiama la vita spesa alla Ford di Detroit dal personaggio di Eastwood, è l’America che è cambiata, ed è anche la forza di un sogno senza tempo, che ammaliava ieri come oggi, in un mondo dai valori distorti. Il film fa conoscere un popolo antichissimo che si è trovato a intrecciarsi con il mondo americano. Clint Eastwood, che firma la regia ed è anche protagonista, racconta le vicissitudini di un veterano della guerra di Corea, Walt Kowalski (un personaggio che conosco bene – ha detto Eastwood – ho combattutto quella guerra anch’io), un rude che ringhia alla gente, che bacchetta i suoi avidi figli e non vede di buon occhio certi asiatici che ieri ha combattuto e oggi hanno cambiato la fisionomia del suo quartiere. Ma a farlo uscire dal suo mondo da lupo solitario è proprio l’incontro tra i classici valori americani e quelli di una famiglia della comunità Hmong: la patria e la famiglia sono sacri. Gli Hmong hanno creato con gli americani legami sottili che pochi conoscono. Perseguitati dal partito comunista vietnamita non tanto per la loro fedeltà alla deposta famiglia reale, quanto per gli accordi con la CIA nell’affiancare i soldati americani contro l’esercito nord-vietnamita. Quando gli americani abbandonarono Saigon, in circa 300 mila Hmong ottennero asilo politico. A ridare a Kowalski il piglio del giustiziere è proprio l’amicizia con i vicini di casa Hmong, una famiglia del Laos finita nel mirino di una gang criminale del quartiere. In particolare l’amicizia con i ragazzi, Ton e Sue, gli fa scoprire e riscoprire la voglia di tutelare i migliori pincìpi. “Esistono intere generazioni di famiglie di profughi Hmomg, portatori di antichissimi rituali, di cui gli americani e il mondo occidentale sanno poco o nulla”; e forse anche per questo Eastwood ha voluto attori freschi. Un film sull’ostinazione nel valorizzare i valori di lealtà, a costo del sacrificio. La Gran Torino non sfreccia, non sgomma, ma viene accompagnata a trotterellare come un veterano che non ha più bisogno di dimostrare nulla, se non rappresentare quella forza di giustizia che deve sopravvivere di generazione in generazione.

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