Referendum: Renzi cade, e Marchionne perde la sua scommessa
Storia di un amore imperfetto. Il No stravince il referendum costituzionale e il premier Matteo Renzi ha annunciato le sue dimissioni da Palazzo Chigi a poco più di un’ora dalla chiusura dei seggi. Quando i No sfioravano il 60%. Viene definita una sconfitta epocale per il potere governativo.
Bisogna dire che Renzi ha abbassato le armi con onore. “Ho perso io – ha detto rivolgendosi ai suoi sostenitori – non voi”. “Il mio governo finisce qui”. Lo aveva detto, ritrattato, poi riconfermato, e alla fine lo ha fatto.
“Volevo cancellare le troppe poltrone, non ce l’ho fatta. E allora salta la mia”. Un discorso fatto col cuore quello di Renzi, a ferro caldo, caldissimo, con gli occhi rossi per la commozione e le parole mai polemiche, ma ugualmente orgogliose.
Sappiamo bene che Sergio Marchionne, il numero uno di FCA – Fiat Chrysler, si era schierato apertamente per il “si” al referendum costituzionale, anche se le motivazioni apparivano a volte un po’ ambigue. “Non voglio giudicare se la soluzione è perfetta, ma è una mossa nella direzione giusta”. “Ciò che interessa all’azienda è la stabilità del sistema”. Così parlava Marchionne in occasione della premiazione della Rotman European Trading Competition, gara tra giovani economisti alla Luiss, sulla scia delle tradizioni americane. Affermazioni decise, a volte quasi ciniche, controbilanciate da sfoghi di coscienza, del tipo: “Non potranno mai esserci mercati razionali, crescita e benessere se una vasta parte della società non ha nulla da contrattare se non la propria vita”.
Il sostegno a Matteo Renzi (suo e dei vertici del Gruppo) si è rinforzato in crescendo. Sempre, all’occasione ben ricambiato.
E dire che un tempo non si sopportavano. Quando l’ormai ex premier portava ancora la fascia di sindaco, Marchionne quasi lo derise dicendo “Renzi pensa di essere Obama, ma è il sindaco di una piccola, povera città”. Colpito al cuore, Renzi rispondeva via Facebook: “Vorrei dire all’ingegner Marchionne che è liberissimo di pensare che io non sia un politico capace. Ma prima di parlare di Firenze, città che ha dato al mondo genio e passione, faccia la cortesia di sciacquarsi la bocca, come diciamo in riva d’Arno”.
Poi Marchionne cambia idea su colui che ha preso il posto di Letta senza passare dalle urne, nelle cui mani finiscono il lasciapassare estero per Fiat verso l’Olanda, l’Inghilterra e gli Stati Uniti, le questioni sindacali, il Jobs Act e la nuova tassazione sulle imprese.
Già a marzo, durante il salone di Ginevra, i vertici Fiat abbracciavano a pieno la politica del novello premier. “La Fiat è sempre filogovernativa”, anche perché il Paese “ha bisogno di credibilità internazionale”
A Detroit l’amministratore delegato di FCA veste i panni di un renziano convinto: “Renzi deve andare avanti, non farsi intimidire. Mi piace perché è uno che fa”. Ben in linea con il pensiero del Presidente di FCA John Elkann, al quale rispondeva un ingraziato Renzi – sostenitore dell’investimento che portava un marchio americano (Jeep) a essere prodotto in Italia, nello stabilimento di Melfi. Così, per presentare le nuove Jeep Renegade, Marchionne ed Elkann le portarono direttamente al suo cospetto a Palazzo Chigi.
Ringraziava FCA (“Continuiamo ad appoggiare il presidente per l’agenda di riforme che sta portando avanti”) e ri-ringraziava Renzi (“Non è importante se il quartier generale è a Wall Street o ad Amsterdam. Contano i posti di lavoro in Italia”). Dietro le quinte si giocavano questioni non secondarie per la Fiat della exit tax, della tassazione di marchi e brevetti e delle regole sul voto plurimo.
La reciproca ammirazione è continuata imperterrita, almeno fino ad oggi, tra messaggi, visite e complimenti, tra un Marchionne forte sostenitore del “Si” per il referendum costituzionale (“Lasciamolo lavorare, non ostacoliamolo. Non abbiamo scelta”) e un Renzi convinto nel dirsi “gasatissimo dai progetti di Marchionne”. Ora che è tutto da rifare per raggiungere la stabilità dell’Italia che si vedrà.
Ricordiamo una delle massime del Marchionne pensiero: “Non possiamo demandare ai mercati la creazione di una società equa. I mercati non hanno coscienza, non hanno morale, non sanno distinguere tra ciò che è giusto e ciò che non lo è”. Risuona un po’ come un’autodifesa per operazioni obbligate.
Quanto al referendum, da annotare che la partecipazione è stata molto elevata: ha votato oltre il 69,5% degli aventi diritto.
La necessità di partecipare è comunque ciò che più di tutto ha chiamato l’attenzione e convinto gli italiani. Come nella percezione di un momento importante per il Paese, al di là dei contenuti del referendum. Gli italiani si sono espressi su un unico quesito, relativo alle “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione”.
Ma ha giocato molto altro nelle decisioni globali, forse l’idea di una soluzione per il futuro da cui non si sarebbe potuto tornare indietro. Forse lo scontro tra i poteri dell’industria e dell’economia contro la ribellione di un popolo. Fatto sta che ora occorre davvero una scossa per riprendere il cammino e non lasciarsi galleggiare nell’attesa. Serve un premier, magari da votare con una legge elettorale condivisa, serve un forte muro alla corruzione, una più forte valorizzazione e protezione del Made in Italy. Un rappresentante in Europa al prossimo appuntamento importante di Maggio, il G7.
Fabrizio Romano
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