Valentino Rossi rientra nella lista dei recuperi lampo, insieme a quelli spesso più forti del dolore.
Quelli la cui forza di volontà spinge a bruciare le tappe (indipendentemente da dove la forza viene e per cosa). Tanto da battere anche i tempi indicati da medici e chirurghi. Bruciare i canoni di ogni riabilitazione.
Ha certamente fatto scalpore la notizia del ritorno in pista di Valentino Rossi sul circuito di Aragon in Spagna. Appena ventisei giorni dopo il tremendo infortunio a tibia e perone.
Il quinto posto ottenuto in gara è soltanto l’ultima impresa di campioni del motociclismo in grado di spingersi oltre i limiti della scienza e delle capacità umane.
Ostinazione, certo. E anche un pizzico di sana follia. Ma anche dedizione e il desiderio di tornare velocemente in moto. Perché la pista è il loro habitat naturale, quello in cui si divertono ancora. E fino a quando c’è ancora il fuoco vivo dentro, diventa difficile accettare l’idea di rimanere fermi, anche davanti a evidenti limitazioni fisiche.
Il Dottore invero aveva già abituato i suoi fan a recuperi lampo. Successe già nel 2010, nel corso della sua prima esperienza alla guida della Yamaha. Allora gli andò pure peggio. Durante le prove libere del GP del Mugello, in seguito di una brutta caduta rimediò la frattura scomposta ed esposta di tibia e perone.
Una circostanza analoga a quanto subito lo scorso 31 agosto e che avrebbe dovuto tenerlo ai box diversi mesi. Invece, a poco più di un mese dall’infortunio, al Sachsenring Valentino tornò in sella alla M1 ottenendo un onorevole quarto posto.
Quelli tornati in pista in tempi record.
Il caso di Rossi non è stato certo isolato. In ordine di tempo senza allontanarci troppo, ricordiamo Mick Doohan nel 1992. Ad Assen la rottura di tibia e perone per il pilota australiano della Honda, a seguito di un incidente in gara per il quale ha rischiato anche l’amputazione di una gamba. Dopo tre gare saltate, il rientro in Brasile, dove chiuse 12°. Nel periodo forzato ai box, il pilota australiano perse punti importanti in favore del rivale Wayne Rainey che si aggiudicò il Mondiale. Ma la sua resurrezione sportiva fu poi certificata dai cinque titoli consecutivi vinti dal ’94 al ’98. Una carriera fantastica quella di Mick Doohan (nella foto in alto), si dice letteralmente salvata dal Dott. Costa.
Due anni dopo, curiosamente sempre in Olanda, Kevin Schwantz giunse quinto dopo essersi rotto il polso in qualifica.
C’è anche da annoverare di Troy Bayliss nel 2007. L’ex campione della Superbike, con un passato in MotoGP, perse le falangi di un dito a Donington ma dopo dieci giorni tornò in pista raccogliendo un sesto e un terzo posto.
Correva l’anno 2000, quando Loris Capirossi con una mano sola è riuscita a salire sul podio. L’altra se l’era fratturata durante il warm up.
Nel 2012 Cal Crutchlow si frattura la caviglia sinistra nelle prove ma decide comunque di correre chiudendo sesto. Il Gran premio di Francia viene poi ricordato anche per il quinto posto di Andrea Iannone sulla Ducati. Il pilota abruzzese scese in pista praticamente con un braccio solo a causa di una lussazione alla clavicola sinistra. L’infortunio, a seguito di una caduta rimediata durante i test. Stessa sorte per Jorge Lorenzo nel 2013 ad Assen.
Lo Stoner che ci provò.
Ha dell’incredibile l’impresa dell’ex campione del mondo Casey Stoner, nel 2012 nel GP di Indianapolis. L’australiano durante le qualifiche rimediò diverse fratture e una lesione dei tessuti intorno alla caviglia destra. Oltre a svariate contusioni e strappi ai legamenti. L’entità dell’infortunio non fu comunque tale da impedirgli di gareggiare la domenica, in cui perse il podio soltanto allo sprint contro Dovizioso. Ma il pilota della Honda dovette comunque fermarsi tre gare, rendendo la sua performance ancora più degna di nota.
A soli nove giorni dalla rottura della clavicola, Colin Edwards colse invece uno storico podio sul bagnato nel 2011 a Silverstone. Nonostante il dolore che lo accompagnava durante la guida, per sua stessa ammissione.
Lo straordinario esempio di Niki Lauda.
Il parallelismo si può provare a fare anche con altri sport. Non sempre l’età non più “verdissima” influisce sui tempi di recupero che, secondo una corrente di pensiero, si allungano con il passare degli anni. Spesso incide anche la forza di volontà dell’atleta desideroso di non mancare l’appuntamento con la storia. E forse l’ultima occasione di iscrivere il proprio nome nell’albo d’oro dei vincitori.
Basti citare l’esempio di Franco Baresi. Il capitano della Nazionale italiana di calcio, all’età di 34 anni, scese in campo 25 giorni dopo l’operazione al menisco nella finale dei Mondiali del ’94 negli Stati Uniti.
Restando invece nel mondo dei motori ma a quattro ruote, è negli albi della Formula 1 la memorabile impresa di Niki Lauda nel 1976. Il tre volte campione del mondo di F1 subì un pauroso incidente al Nurburbring, con la macchina che prese fuoco e gli lasciò il volto ancora oggi sfigurato. La ripresa fu dolorosissima, ma anche rabbiosa nella voglia di tornare al volante per contrastare James Hunt. Il pilota austriaco della Ferrari seppe tornare alle corse 42 giorni più tardi, soffrendo ma facendo un figurone al Gran Premio d’Italia.
Redazione MotorAge.it – Andrea Sicuro